La diagnosi di una malattia oncologica rappresenta sempre, per il paziente e la sua famiglia, ma anche per i terapeuti, una prova esistenziale durissima e destabilizzante, che riguarda tutti gli aspetti della vita: relazioni familiari, sociali, professionali, rapporto con il proprio corpo, significati di vita, sofferenza, morte.
Lasciando perdere interpretazioni zuccherose e stucchevoli che spesso si attribuiscono alle vicende di chi lotta contro il cancro, una malattia come questa cambia la prospettiva sulla vita stessa, cambia le priorità, le scale di valori, rappresenta una perdita della destinazione e della mappa che ha guidato fino a quel momento.
Attualmente però l’evoluzione della scienza medica a volte fa sì che l’essere umano venga confinato in immagini e parametri clinici. L’uomo malato lascia il posto alla malattia e la malattia viene confinata nell’organo malato. Ma basta incrociare lo sguardo di un paziente… ed esplode la necessità di riconoscere, all’interno del paradigma medico, un’idea del tutto diversa di conoscenza e verità.
Ed è in questa prospettiva che la valutazione delle dimensioni psicologiche e sociali rappresenta pertanto un elemento costitutivo del trattamento del paziente oncologico. Occuparsi anche delle implicazioni psicologiche del cancro non significa banalmente “umanizzare” la medicina: significa soprattutto adottare un approccio multidisciplinare alla malattia, dando spazio all’idea che il paziente si adatta e risponde meglio alle terapie se ci si fa carico anche del suo benessere psichico.
Le terapie complementari in oncologia possono, in quest’ottica, divenire un aiuto/risorsa avendo come obiettivo il “prendersi cura” della persona, cooperando e accostandosi alla medicina convenzionale, conquistando evidenze scientifiche di efficacia.
Sempre più oggi si può parlare di “medicina integrata”, in cui si prospetta un cammino comune multidisciplinare che miri anzitutto a dare priorità alla dignità della persona sofferente. Una nuova cultura quindi, una nuova visione della salute orientata soprattutto verso la qualità della vita.
Ed è così che sono nati i percorsi che cerchiamo di offrire ai pazienti oncologici del Policlinico Sant’Orsola di Bologna: musicoterapia, danza movimento terapia, meditazione, scrittura, disegno, fotografia, laboratorio teatrale…sperimentando come attraverso questi percorsi si possa contribuire a ridisegnare una nuova mappa che permetta di ritrovare l’orientamento, il sentiero in mezzo alla giungla, fra le onde di un mare in tempesta.
Quando ci siamo lanciati in questa avventura pensavamo di utilizzare teorie, metodologie, procedimenti e strumenti in un’ottica di contaminazione interdisciplinare, proprio perché da qualche tempo in ambito clinico stanno sempre più nascendo evidenze scientifiche sull’utilità delle pratiche terapeutiche complementari, non alternative, in grado di offrire uno spazio dove la fatica e la sofferenza della malattia possano essere comunicate e rielaborate.
Ma quello che è nato, e non so se riuscirò a trasmetterlo a parole, è stato qualcosa che è andato molto oltre le teorie…
Nel laboratorio di scrittura esplodono testi che pur non avendo pretese letterarie, sono voci di chi attraverso parole condivise ritrova con la narrazione temporizzazione e scopi di vita e soprattutto prende distanza dal dolore. Difficile riassumere quanto significato c’è dietro parole di persone ferite non solo nel corpo ma nella voce. Utilizzando la scrittura il percorso di ricostruzione diventa più chiaro, la parola diventa congiunzione fra sé e l’altro. Attraverso le parole la sofferenza, la paura, il percorso di cura viene condiviso. Non ci sono solo io e la mia malattia, io e il mio mondo…ma io, il mio mondo e tutti i mondi che entrano in contatto con me, si contaminano e mi contaminano.
Nel laboratorio teatrale, nel percorso di musicoterapia, danza movimento terapia, meditazione, è stato come accedere ad uno spazio dove la mente inizia a sentire e il cuore a pensare…
Nel laboratorio teatrale, incredibile, il corpo e l’uso del corpo è arrivato a condensare la vita di relazione, l’emotività e gli affetti. Le emozioni nascono nel corpo e dal corpo, mentre i sentimenti dipendono da e richiedono l’elaborazione mentale. E in questa avventura ascoltare il corpo divenuto teatro dell’anima è diventato anche ascoltare l’anima. Entrando nello spazio del laboratorio teatrale è stato come se i pazienti varcassero quasi una soglia “del tempio”, lasciando le scarpe fuori, muovendo il corpo secondo traiettorie diverse dai movimenti stereotipati del quotidiano e della malattia. È stato come se azionando il corpo e la voce il corpo iniziasse a “sentire”.
Ma in tutti i percorsi soprattutto la magia è stata la creazione del gruppo, una sorta di sistema aperto, concepito come un sistema vivente, dinamico, formato da sistemi di alleanze con forze centrifughe e centripete. È accaduto qualcosa, e non credo di esagerare, di simile ad un’alchimia, ad una sorta di trasformazione: si liberano le emozioni, s’innescano processi catartici. Ognuno aiuta l’altro a ri-vedersi, a ri-conoscersi, a ri-flettere su molti aspetti non ancora percepiti, come in un labirintico gioco di specchi. Nella fase di maturità di un gruppo le dinamiche e i meccanismi interni sono ben oliati, le relazioni si basano sulla reciproca stima e fiducia, i ruoli sono ben definiti e rispettati, diventa piacevole “far parte di”.
Le relazioni che s’instaurano s’intrecciano con le storie passate e presenti di ogni partecipante, in un confronto continuo. Difficile riassumere sguardi, parole, dolore, alternanza fra lo spezzarsi del tempo e il suo ricostituirsi nella speranza. Difficile riassumere come si possa esprimere amore per la vita anche quando si immagina la morte.
E il sistema gruppo diventa un nuovo spazio di vita, un luogo di confronto e di costruzione di una nuova immagine di sé, un contesto dove le idee circolano e le persone si mettono in gioco come protagoniste della propria vita e non come comparse del teatro della vita e della malattia.
Lucia Polpatelli
Psico-oncologa presso Sant’Orsola di Bologna